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Il modello delle Realtà Condivise come approccio narrativo alla psicoterapia
di Valentina Albertini
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Dott. Valentina Albertini

Psicologa Psicoterapeuta, è docente e socio del Centro di Studi e di Applicazione della Psicologia Relazionale di Prato
(C.S.A.P.R.). È socio ordinario clinico della Società Italiana di Psicologia e Psicoterapia Relazionale (S.I.P.P.R.) e membro della
Commissione Ricerca Sippr.
È membro del Comitato Direttivo della Fondazione dell'Ordine degli Psicologi della Toscana.
Autrice di varie pubblicazioni nazionali ed internazionali, fra le quali " La clinica e il web" con Gianmarco Manfrida ed Erica Eisenberg
edito da FrancoAngeli. Ha contribuito, inoltre, alla realizzazione dell'Osservatorio regionale toscano sulle condizioni di detenzione.
Ha partecipato come relatrice a numerosi congressi nazionali e internazionali.
Il modello delle Realtà Condivise come approccio narrativo alla psicoterapia
Tutti i Figli dell'Uomo che sono venuti fra noi hanno appreso qualcosa che solo qui potevano apprendere
e che li ha fatti tornare nel loro mondo profondamente mutati. Erano diventati dei veggenti perché ci avevano visto nella nostra vera
natura. Per questo potevano guardare il loro stesso mondo e il loro prossimo con occhi del tutto diversi. Là dove prima non vedevano che
banali cose quotidiane, scoprivano di improvviso miracoli e misteri. Per questo venivano volentieri da noi in Fantàsia. E quanto più
ricco e fiorente diventava il nostro mondo grazie a loro, tanto meno erano le menzogne nel loro mondo, e tanto più perfetto esso diventava.
Così come due mondi possono distruggersi a vicenda, allo stesso modo possono vicendevolmente risanarsi". "Perché solo un nome nuovo
può risanarti?" "Solo il nome giusto dà a tutte le cose e tutte le creature la loro realtà", spiegò lei. "Il nome
sbagliato rende tutto irreale. Questo è ciò che fa la menzogna"
Michael Ende, La Storia Infinita
La realtà la costruiamo a parole. I sociologi Peter L. Berger e Thomas Luckmann, nel loro lavoro La realtà come costruzione
sociale (1966), sostengono che la realtà non è qualcosa a priori, ma viene costruita come prodotto dell'attività
umana, seguendo un processo dialettico. Definiamo chi siamo condividendo la quotidianità con chi abbiamo intorno, con le nostre relazioni
significative. Questa realtà condivisa, che garantisce una certa stabilità alla nostra identità e rende la nostra vita
più prevedibile, diventa però col tempo "dominante": impedisce, infatti, a possibili identità alternative, nascoste nei
sottomondi sociologici, di emergere e permetterci di "raccontarci" in modo diverso. Le persone tendono a confermare la realtà dominante,
per un bisogno naturale di stabilità e prevedibilità del mondo. Ma cosa succede se quelli che ci vengono attribuiti sono ruoli
rigidi e potenzialmente patogeni? Cosa succede se intorno a noi tutti iniziano a definirci come "il depresso", "l'anoressica", "il bordeline"?
Capita spesso che le persone arrivino in terapia portandosi dietro un ricco carnet di diagnosi, ormai parte strutturante della propria
identità: "Dottore, io sono un bipolare!". E più queste identità sono condivise e confermate, tanto più
è difficile creare un cambiamento, andare a pescare nei sottomondi sociologici ipotesi alternative su ciò che siamo e sui
perché siamo così.
Il Modello delle Realtà Condivise [1], sviluppato da Gianmarco Manfrida, partendo dai presupposti sociologici di Berger e Luckmann, si
interroga proprio sul cambiamento terapeutico e su come un terapeuta possa aiutare il paziente a "ri-scrivere la propria vita" [2,3]. Dice
Manfrida che nei racconti dei pazienti, sommerse in un mare di banalità confirmatorie, compaiono a tratti, spesso in modo incongruo,
delle discrepanze, squarci di racconti alternativi provenienti dai sottomondi sociologici, sfere di dati e di significati anch'essi socialmente
condivisi e confermati, ma minoritari e relegati nell'ombra della consapevolezza. Scopo del lavoro terapeutico è proprio il recuperare
questi pezzi di realtà nascosti e costruire insieme al paziente delle storie alternative, dei modi di raccontarsi che liberino dalle
rigide identità patogene condivise e portate nella stanza di terapia.
Questo aiutare i pazienti a "riscrivere" le proprie storie è ciò che inserisce il sintomo all'interno di una rete di significato e
rende il cambiamento terapeutico stabile: "Il terapeuta si affianca al romanziere nel dare grande importanza a una piccola selezione ricavata
dal complesso dei fatti, prendendo ciascun evento non solo per quello che vale in se stesso, ma anche per il significato che acquisisce in una
prospettiva allargata"[4].
La metodologia narrativa è un orientamento relativamente recente all'interno del mondo della psicologia: osservando la storia della
psicoterapia si può notare, infatti, che negli anni [5] l'enfasi si è gradualmente spostata dalla "verità storica" (che
deve essere scoperta dal terapeuta) alla "verità narrativa" (che terapeuta e paziente costruiscono insieme). Uno sviluppo narrativo della
terapia familiare ha permesso ai terapeuti di concentrarsi sugli effetti invece che sulle cause, consentendo una maggiore fluidità delle
narrazioni, cioè una loro evoluzione nel tempo, e di rivalutare le interazioni terapeutiche che diventano "esperienze" e non semplici
raccolte di informazioni [6]. Anche secondo Ricoeur [7], l'approccio narrativo all'interno delle psicoterapie implica che il terapeuta costruisca
delle storie alternative che ancora non sono state narrate: la vita è, infatti, un semplice fenomeno biologico finché non viene
interpretata attraverso una narrazione. "Relazioni e contesto sono, quindi, gli ingredienti della nostra identità, la narrazione
è la tecnica di cottura universale di noi terapeuti; utilizziamo poi altre sottotecniche speciali (strutturali, strategiche, paradossali,
delle domande circolari, delle sculture) e una quantità enorme e variabile di strumenti affascinanti e utili" [8], ed ogni volta che
entriamo nella stanza di terapia non possiamo esimerci dal narrare qualcosa: la narrazione è, de facto, parte integrante di qualsiasi
terapia [9].
Il termine "narrativo" nella psicoterapia è utilizzato in due modalità diverse: la prima consiste nell'analisi del materiale
terapeutico in termini narrativi; la seconda insiste, invece, sulla necessità di proporre interventi terapeutici che vengono chiamati,
appunto "terapia narrativa". Caillé sostiene che il racconto è un esempio di lavoro terapeutico in cui l'estetica della terapia
(che si ritrova nella forma metaforica e spesso poetica del racconto) non è mai fine a se stessa ma si ricollega a un'etica: "E
quest'etica consiste nella responsabilità del terapeuta di farsi garante di un processo in cui, contro ogni schema pedagogico o
manipolativo, vengano attivate le risorse creative della famiglia, emergano altre possibilità di scelta" [10]. Non basta, però,
una semplice narrazione affinché l'intervento sia realmente terapeutico. È necessario che le storie alternative che possono emergere
con l'aiuto del terapeuta abbiano delle caratteristiche che le rendano capaci di produrre un cambiamento [1], e queste caratteristiche secondo
il modello delle Realtà Condivise sviluppato da Manfrida sono la plausibilità, che consente di proporre il canovaccio della nuova
storia e di definire il contratto che autorizza a lavorarci sopra; gli aspetti di persuasione, che permettono di rinforzare sul piano logico ma
anche emotivo lo sviluppo della nuova storia; ed infine gli aspetti di validità estetica, utilizzati allo scopo di rendere il cambiamento
appetibile e desiderabile.
Bibliografia di riferimento
- Manfrida, G., La narrazione psicoterapeutica. Invenzione, persuasione e tecniche retoriche in terapia relazionale, Franco Angeli
Editore, Milano 1998
- White M., Re-Authoring Lives: Interviews and essays, Adelaide, Dulwich Centre Publications 1995
- White, M., La Terapia come narrazione, Casa Editrice Astrolabio, Roma, 1992
- Polster, E., Ogni vita Merita un romanzo. Quando raccontarsi è terapia, Casa Editrice Astrolabio Roma, 1988
- Spence, D., Narrative truth and Theoretical truth, Psychoanalytic Quarterly; Volume 5, 1982
- Papadopoulos R. K.; Byng Hall J., Voci multiple. La narrazione nella psicoterapia sistemica familiare, Mondadori editore, Milano 1999
- Ricoeur P., Narrative Identity, in Wood D., Ricoeur, P., Narrative and interpretation, Routledge, London 1991
- Manfrida, G., L'Artusi, la nouvelle cuisine e la psicoterapia: conservazione, innovazione e mode in terapia relazionale, in Ecologia
della Mente, Volume 32, Il pensiero Scientifico Editore, Roma 2009
- Zimmerman, J.L., Dickerson, V.C., Using a Narrative Metaphor: Implications for Theory and Clinical Practice, Family Process Volume 33, June
2004
- Caillè P., Rey Y., C'era una volta. Il metodo narrativo in terapia sistemica, Franco Angeli, Milano 1998.
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