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Nuova Clinica Nuovi Setting: Scuola di Psicoterapia Analitica Individuale e di Gruppo - Milano

Nuova Clinica Nuovi Setting
Scuola di Psicoterapia Analitica Individuale e di Gruppo

DIREZIONE
Milano: Viale F. Restelli, 3 - cell 351.9922953
www.nuovaclinica.it

"Con Luca non si può parlare!": un caso paradigmatico della Nuova Clinica
di Riccardo M. Scognamiglio, Simone Matteo Russo


Dott. Riccardo M. Scognamiglio
Psicologo, Psicoterapeuta, Psicosomatologo
Fondatore dell'Istituto di Psicosomatica Integrata, Direttore della Scuola Nuova Clinica Nuovi Setting, Presidente del Comitato scientifico dell'Ass. Italiana di Psicologia Psicosomatica (AIPP), membro del Direttivo Gruppo Infanzia, Adolescenza e Parentalità (GIAP) della Association Européenne de Psychopathologie de l'Enfant et de l'Adolescent (AEPEA). Socio esperto dell'Associazione Nazionale Dipendenze Tecnologiche Gap e Cyberbullismo (Di.Te.).
Dott. Simone Matteo Russo
Docente della Scuola, Psicologo, Psicoterapeuta, Psicosomatologo
Membro dell'équipe clinica dell'Ist. di Psicosomatica Integrata, responsabile e supervisore dell'équipe educativa e dell'area Infanzia e Adolescenza, docente dell'attività formativa in Psicologia Psicosomatica. Membro del Comitato Scientifico dell'Ass. Italiana di Psicologia Psicosomatica, Esperto dell'équipe dell'Ass. Nazionale Dipendenze Tecnologiche. Co-autore di: Il Narcisismo del You, Adolescenti Digitalmente Modificati.

"Con Luca non si può parlare!": un caso paradigmatico della Nuova Clinica

Negli ultimi 30 anni, la rivoluzione tecnologica ha riscritto le forme del malessere, comportando una messa in discussione delle logiche che fondano i principali paradigmi della Psicoterapia analitica. Ad oggi, osserviamo nuovi comportamenti che creano nuove fenomenologie cliniche e, nello stesso tempo, modificano quelle tradizionali: dalla FOMO (Fear Of Missing Out) al cyberbullismo, passando per il ghosting, fino al ritiro sociale. Ne risulta, di conseguenza, un diverso funzionamento psichico: se la struttura della mente cambia, con essa cambiano l'espressione del malessere, le strategie di adattamento e le difese.
Come argomentiamo nelle nostre ultime pubblicazioni (Scognamiglio & Russo, 2018; Scognamiglio, Russo & Fumagalli, 2024), questa nuova generazione di pazienti che abbiamo definito Nuova Clinica rappresenta una sfida nel trovare nuove chiavi di lettura alle attuali forme di disagio.
Nello specifico, osserviamo tre elementi trasversali ai diversi quadri clinici:
  • l'alessitimia, ovvero la difficoltà nell'identificare e nell'esprimere le emozioni;
  • il traumatismo evolutivo, legato al modello di attaccamento con i caregiver, che predispone a strutture di personalità caratterizzate da aree di fragilità narcisistica;
  • una tendenza involutiva che si manifesta con un carattere ripetitivo (ad esempio, le addiction) o inerziale (come i quadri ansioso-depressivi che sempre più spesso sfociano nell'isolamento sociale).
Questi tre elementi alla base dell'erosione del processo di simbolizzazione mettono in questione l'uso di tecniche terapeutiche basate esclusivamente sullo scambio verbale e sull'appello alle funzioni cognitive.
La Nuova Clinica non può essere affrontata con modelli teorici basati su impostazioni storicizzate, spesso anacronistiche. Adottare a priori un modello forte produce un limite tecnico, in quanto si è orientati a utilizzare lo stesso paradigma interpretativo con qualunque paziente. Diversamente, la Nuova Clinica necessita di subordinare il modello di riferimento alla capacità del terapeuta di sintonizzarsi con le diverse modalità con cui si esprime il malessere del paziente. In altre parole, il setting viene costruito in funzione del paziente, non del modello.
Per illustrare concretamente questi principi, presentiamo un esempio paradigmatico, analizzato in tre frammenti, tratto da Adolescenti Digitalmente Modificati (Scognamiglio & Russo, 2018).
Luca è un adolescente di 17 anni con dipendenza tecnologica e da sostanze. Dal primo incontro col padre emerge un quadro preoccupante. Luca, infatti, è sopraffatto da momenti in cui perde totalmente il controllo, fino ad arrivare a manifestazioni aggressive violente: sia a scuola, dove rischia la bocciatura; sia in casa, dove Luca esplode fino ad alzare le mani, soprattutto quando è chiamato a prendersi le sue responsabilità. Il padre aggiunge: "Con Luca non si può parlare! Appena lo contraddici, urla come un pazzo. Dice di non avere problemi e che i problemi ce li abbiamo noi. Ci sono poi dei giorni in cui sembra un altro, depresso, senza forze, buttato sul divano a guardare il vuoto. Non so, non lo capisco".
Il terapeuta che incontra Luca descrive così la prima volta in cui entra in contatto con lui:
"Al suo appuntamento Luca arriva da solo. In sala d'aspetto sta giocando con lo smartphone mentre ascolta la musica. Si fa chiamare due volte prima di alzare lo sguardo verso la porta dello studio. Entrato in silenzio nella stanza, spegne la musica, digita qualcosa sul telefono e mi guarda. I nostri occhi si incrociano per un istante ma subito distoglie lo sguardo per osservare la stanza, come per capire dove si trova. Ci sediamo e, cogliendo in lui un senso di spaesamento, gli chiedo: "Sai perché sei qui?". Luca risponde: "Perché mio padre mi ha detto che ti ha parlato". La risposta è secca e rapida, Luca non aggiunge nient'altro, rimane in silenzio, continuando a perlustrare lo studio, spostando velocemente lo sguardo da un oggetto all'altro".
In questo breve frammento, se analizziamo l'interazione sul livello verbale, è possibile notare come Luca risponda al terapeuta con una sola frase, del tutto impersonale: "Perché mio padre mi ha detto che ti ha parlato". Il dialogo, tuttavia, è solo una delle possibili dimensioni dell'incontro. L'idea del nostro modello di lavoro è esplorarne anche altre.
Se, infatti, analizziamo l'incontro tra il terapeuta e Luca su un piano non verbale, possiamo già ritrovare dei pattern relazionali ripetitivi con precise coordinate comunicative che ruotano attorno a un oggetto specifico: lo sguardo. Osservando attentamente l'interazione, ad ogni contatto o tentativo di contatto del terapeuta, segue un moto dello sguardo di Luca. Tale moto potremmo definirlo come una silenziosa reazione di evitamento, resa evidente proprio dal distogliersi dello sguardo.
In sala d'attesa, mentre gioca e ascolta la musica, Luca è talmente assorbito dal suo habitat sensoriale da non accorgersi che il terapeuta è venuto a chiamarlo. Ma quando lo stesso terapeuta entra in scena, anziché relazionarsi a lui, si attiva l'evitamento: Luca, infatti, si fa chiamare due volte prima di alzare lo sguardo verso la porta dello studio, non verso il terapeuta. Successivamente, quando avviene il contatto visivo, segue nuovamente l'allontanamento dello sguardo e l'esplorazione della stanza. Anche quando il terapeuta chiede: "Sai perché sei qui?", ritroviamo una duplice reazione di evitamento: prima nella risposta verbale, nella quale Luca non si implica personalmente; poi ancora nello sguardo.
L'attivazione di questi pattern d'evitamento ci segnala la difficoltà di Luca nel sostenere la presenza di un altro in carne e ossa. Alla luce di quanto emerso, potremmo dire che, fino a questo momento, terapeuta e paziente non si sono ancora sintonizzati, non avendo ancora costruito le condizioni per potersi incontrare: Luca sembra essere altrove rispetto a ciò che gli accade, come effetto di una condizione dissociativa di difesa.
Se sul piano della parola, ciò che è emerso è una sola frase impersonale, diversamente il corpo ci ha portato subito dentro un preciso pattern relazionale. A partire dall'analisi dell'attivazione corporea, potremmo dire che Luca è costantemente in uno stato d'allerta, tenuto sotto controllo e anestetizzato dall'iperstimolazione digitale. In ambito neurobiologico, questo sembra un caso esemplificativo di quella condizione che all'interno della teoria polivagale è descritta come neurocezione di pericolo (Porges, 2011), cioè un'attivazione ortosimpatica di attacco-fuga che ritroviamo spesso nei pazienti traumatizzati in forma disregolata. Come includere, dunque, questo corpo così reattivo nella terapia in relazione alla presenza ingombrante e potenzialmente pericolosa dell'altro?
Potremmo individuare tre questioni da affrontare:
  • la prima è dove collocarsi quando un paziente come Luca non ha nella sua mente un posto per l'altro, se non in termini di pericolo;
  • un secondo livello è come creare una zona di incontro, di terzità, una thirdness (Benjamin, 2004), cioè uno spazio alternativo a quello dell'evitamento;
  • un terzo punto è come scendere a patti per ripristinare una diade intersoggettiva che produca effetti di co-regolazione.
Torniamo adesso in seduta.
Subito dopo l'ultimo silenzio, il terapeuta si rivolge a Luca: "Ti prendo dell'acqua!"; quindi, esce dallo studio e rientra con la bottiglia d'acqua. Luca allunga la mano, prende il bicchiere e lo porta alla bocca. Mentre entrambi bevono, il terapeuta inizia a chiedere: "Sei venuto in motorino? Hai trovato facilmente parcheggio?" e Luca risponde con disinvoltura a entrambe le domande. Adesso sembra un po' più rilassato, anche se non del tutto: "Come ti senti in questo momento?", domanda il terapeuta. "Meglio, grazie", risponde Luca.
Il gesto di prendere dell'acqua è il tentativo di rompere una staticità del setting che mette il terapeuta in una posizione di impotenza. È proprio l'ascolto dei propri stati interni che consente al terapeuta di poterne prendere una distanza, uscire dalla dissociazione e sperimentare nuove possibilità relazionali. Osserviamo come il terapeuta non ponga domande relative al contenuto dell'incontro e neppure approfondisca direttamente le informazioni in possesso provenienti dall'incontro col padre. Potremmo dire che il terapeuta qui si trovi a rivolgere le sue attenzioni alle precondizioni del dialogo. A questo lavoro, Luca e il suo corpo sembrano rispondere positivamente e il clima emozionale non sembra più essere percepito come pericoloso. Con i casi della Nuova Clinica, al di là della tecnica utilizzata, il terapeuta ha come priorità di portare il paziente in uno stato di comfort attraverso una disposizione che Pizer (1992) definisce preoccupazione analitica primaria, cioè lasciarsi muovere da una necessità di ricostruire un incontro prima di tutto tra persone. La sintonizzazione da parte del terapeuta viene creata sperimentando dentro di sé un sincero prendersi cura dell'altro. L'obiettivo è creare le precondizioni per poter poi dialogare, elaborare e mentalizzare.
Ritorniamo ancora in seduta per verificare se e come si modifica l'interazione dopo aver modificato le coordinate del setting.
È Luca a prendere la parola: "Posso tenere un auricolare? Tengo bassa la musica, sai, mi aiuta a concentrarmi. Con l'altro orecchio ti ascolto". Non c'è imbarazzo, né tensione sul suo volto. Il terapeuta accoglie l'istanza di Luca: "Va bene, che musica ascolti?" e Luca comincia a parlare.
Ciò che notiamo è come, per la prima volta, Luca arrivi a chiedere qualcosa. C'è, dunque, un cambiamento nel pattern relazionale: al posto dell'evitamento emerge una richiesta, un movimento verso l'altro, un seeking. Dopo la fase di sintonizzazione affettiva, si è potuto finalmente strutturare un punto di contatto attraverso il quale Luca ha potuto prendere un posto nel discorso. La domanda "Posso tenere un auricolare?", che in alcuni contesti psicoterapeutici potrebbe essere interpretata in termini di resistenza, richiede un radicale cambio di paradigma. Negli auricolari, infatti, noi leggiamo la richiesta implicita di Luca di ripristinare parte del suo habitat sensoriale per ritrovare una zona di comfort nella quale potersi relazionare all'altro. Il terapeuta qui facilita la possibilità che Luca riconosca nel nuovo ambiente relazionale un oggetto-sé rispecchiante (Kohut, 1971; 1978), in una forma implicita. Interpretiamo, quindi, la domanda di Luca come un invito a entrare nel suo guscio, nel suo mondo.
In situazioni in cui i pazienti non riescono a implicarsi, solitamente i setting psicoterapeutici tradizionali tentano di attivarne la soggettività in due modalità:
  • la prima, propria del modello psicoanalitico e psicodinamico, avviene attraverso il silenzio analitico, con l'obiettivo di lasciare uno spazio vuoto per esplorare il mondo interno, per poi comunicarlo al terapeuta. Con i casi della Nuova Clinica, tuttavia, il silenzio può aggravare il senso di smarrimento e risuonare con il vuoto angoscioso interno;
  • la seconda cerca di attivare l'implicazione soggettiva attraverso una dialettica che mira a far emergere aspetti di sé, con domande che spingono al coinvolgimento diretto nel discorso e all'implicazione personale. Ma, anche in questo caso, se non si sono create prima le condizioni di comfort e di sintonizzazione, la spinta al dialogo rischia di trasformarsi in un braccio di ferro, frustrante sia per il terapeuta, sia per il paziente, che spesso non riesce a rispondere se non forzatamente o a monosillabi.
La dimensione dell'implicazione personale è stata da sempre fondamentale in tutti i modelli di psicoterapia che mettono al centro la parola come strumento trasformativo. Nei modelli pulsionali della psicoanalisi tradizionale, l'analista mirava all'esplorazione del conflitto inconscio e al superamento della rimozione. Mentre oggi la maggior parte della letteratura psicoterapeutica, psicodinamica e non, allarga la visione dell'intervento clinico agli aspetti interpersonali, intersoggettivi e relazionali della terapia per riuscire a contattare un disagio del corporeo, non mentalizzato fino alle componenti traumatiche, di un inconscio che non produce rimozioni bensì scissioni o dissociazioni difensive.
Attraverso questo esempio clinico paradigmatico, abbiamo potuto evidenziare alcuni elementi cardine della Nuova Clinica: dall'espressione del disagio attraverso il canale corporeo, fino a co-costruzione del setting con il paziente attraverso un'attenzione prioritaria alle precondizioni del dialogo al fine di potersi davvero incontrare. Al concetto di alleanza terapeutica tendiamo a preferire oggi quello di sintonizzazione affettiva, che sottolinea come paziente e terapeuta abbiano la necessità di sintonizzarsi entrambi ripetutamente e continuativamente nella relazione rispetto ai processi e agli obiettivi della cura. All'interno di questo modello debole il terapeuta non applica una tecnica a priori ma adatta il setting in base alle esigenze del paziente; è il paziente, infatti, ad elicitare i criteri attraverso i quali entrare in relazione. Questa modalità di lavoro, in costante divenire, riteniamo possa essere una strada possibile per entrare in contatto con la complessità del disagio attuale e con le continue sfide che ci pone in quanto clinici e come esseri umani.
Bibliografia
  • Benjamin J. (2004), Beyond doer and done to: an intersubjective view of thirdness, The Psychoanalytic quarterly, 73(1), 5-46.
  • Kohut H. (1971), Narcisismo e analisi del Sé, Boringhieri, Torino.
  • Kohut H. (1978), La ricerca del Sé, Boringhieri, Torino.
  • Pizer S., A. (1992), The negoziation of paradox in the analytic process, Psychoanalytics dialogues, 2(2), 215-240.
  • Porges S. (2011), La teoria polivagale. Fondamenti neurofisiologici delle emozioni, dell'attaccamento, della comunicazione e dell'autoregolazione, Fioriti, Roma.
  • Scognamiglio R. M., Russo S. M., (2018), Adolescenti digitalmente modificati (ADM). Competenza somatica e nuovi setting terapeutici, Mimesis edizioni, Milano.
  • Scognamiglio R. M., Russo S. M., (2024), Narcisismo del You. Come orientarsi nella clinica digitalmente modificata, Mimesis edizioni, Milano.
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