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L'immaginario collettivo tra campo psichico e campo sociale
di Antonino Aprea


Dott. Antonino Aprea
Preside Scuola di Specializzazione COIRAG. Psicologo, Psicoterapeuta ad orientamento analitico.
Introduzione al Seminario della Sede di Roma della Scuola di Specializzazione in Psicoterapia psicoanalitica della COIRAG: "Clinica psicoanalitica e mondo sociale contemporaneo: la fine di un'epoca?" - Roma 18.01.2020

L'immaginario collettivo tra campo psichico e campo sociale

Bisogna iniziare credo in una giornata come questa da una delle grande lezioni di Edgar Morin: ogni conoscenza deve contestualizzare il proprio oggetto per essere pertinente.

Questione cruciale oggi per le discipline della cura, psicoterapia inclusa, è quella della ricerca continua della pertinenza rispetto al proprio oggetto. L'immateriale dello psichico è incarnato e situato nei corpi e nelle vicende affettive, sociali, economiche e politiche degli uomini e delle loro comunità. Al variare delle epoche storiche non è possibile comprendere l'uomo, la sua mente, le sue relazioni, le sue aggregazioni, se non operando il continuo sforzo di "localizzarlo", riconoscendo le interconnessioni tra le sue vicende e posture individuali e le questioni sociali in cui è immerso, tra il suo immaginario psichico e quello sociale.

Se nel libro di Massimiliano Valerii ("La notte di un'epoca. Contro la società del rancore: i dati per capirla e le idee per curarla") è centrale il tema della riscoperta dell'influenza esercitata dall'immateriale sulla materialità dei processi economici e sociali per comprendere in quale spazio simbolico oggi costruiamo la nostra identità e il nostro futuro, potremmo dire che al tempo stesso è importante per la nostra disciplina, per la psicoterapia, analizzare le forme dell'influenza della materialità dei processi storico-sociali sull'oggetto antropologico specie-specifico che è la mente umana. E ciò perché vi è sempre il rischio che anche l'immateriale psichico si sclerotizzi nella visione di esso che emerge dall'utilizzo stereotipato di alcune lenti metodologiche, interpretative e concettuali elaborate da una disciplina anch'essa, come i soggetti della contemporaneità descritti da Valerii, gettata tra i pericolosi flutti dell'antropologia dell'insicurezza, assediata dal pericolo della nostalgia e dalla perdita della cultura del rischio.

Anche le discipline, infatti, come gli individui e le comunità, si possono ripiegare su loro stesse, possono selezionare i fenomeni da studiare in modo da non mettere in crisi, o caso mai solo lambire, l'architettura teorica che si è sedimentata alla loro base. E le discipline della cura possono anche evitare di analizzarsi a partire dalle loro pratiche reali, dai loro fallimenti, dalle loro contraddizioni, dalle loro opacità etiche.

Il paradosso è che la psiche stessa, come intesa e concretamente "messa al lavoro", per usare una definizione cara all'etnopsichiatria, nelle pratiche cliniche di una determinata epoca storica, può diventare, da essenza tipicamente evanescente e mutabile nel suo misterioso dispiegarsi, un'entità speculativa monolitica, inscalfibile nel suo profilo accademico, una sorta di fortino intorno al quale arroccarsi nel combattimento di disperate battaglie di retroguardia. Perché, è bene ricordarlo, le discipline hanno anche il volto del potere che generano e degli interessi che garantiscono.

E abbiamo indicatori che anche per le discipline della salute mentale e per la psicoterapia siamo in una fase di rottura di paradigma: è sempre più diffusa la serialità dei percorsi di cura, un restringimento progressivo del campo di osservazione minimo per comprendere i fenomeni psicopatologici (a chi interessa più la biografia della persona che è storia delle sue appartenenze, delle culture dei mondi familiari e comunitari in cui è cresciuta e che ha attraversato, della configurazione e delle criticità dei suoi legami relazionali attuali, della loro proiezione nel futuro, del significato personale attribuito all'irruzione caotica del disagio mentale nelle pieghe ordinate dell'esistenza quotidiana?). La persona sofferente la si va a cercare nell'asfittico perimetro delimitato dai suoi sintomi raccolti frettolosamente, caso mai su una checklist autocompilata in qualche corridoio d'ospedale, l'eziopatogenesi torna prepotentemente a circorcoscriversi alla biologia del cervello (o a collassare sulla onnipresente lettura psicologica della colpa della generazione precedente), la terapia si riduce a farmacologica, i percorsi di vita di chi vive il disagio diventano nuovamente (a 40 anni dalla Legge 180) destini di cronicità.

Violenti riduzionismi sia biologici che psicologici, rigidità modellistiche disfunzioni e miserie delle istituzioni di cura del disagio psichico, determinano nel macro-scenario sociale una diminuzione di efficacia del lavoro psicoterapeutico e una crescente perdita di credito sociale della categoria professionale che lo esercita. Una categoria sempre a rischio di un'assunzione acritica del mandato sociale ad essa affidato, molte volte implicito: normalizzare, adattare al mero esistente, sanitarizzare, silenziandoli, bisogni sociali, educativi, di assistenza che non trovano, nell'erosione dei sistemi di tutela collettiva, agenzie pubbliche in grado di soddisfarli.

L'immaginario di una comunità professionale può perdere la coscienza del proprio possibile quando costringe il meglio delle sue energie nell'attività di officiare lo stanco rituale del probabile, della ripetizione del noto, dell'ortodossia che diventa valore in sé, una sorta di pratica autoconsolatoria e rassicurante o, al più, un distintivo identitario. Il rischio è quello di una psicoterapia in cerca di collocarsi e accreditarsi nei mercati ancora disponibili (sempre più ristretti ed elitari) piuttosto che tentare di riguadagnare un ruolo attivo e dialettico in quel sociale che progressivamente ne denuncia l'irrilevanza.

Propongo dunque che l'immaginario sociale collettivo polverizzato, asfittico, frammentato e privo di slanci, ripiegato difensivamente sul presente e sulla ovvietà non problematizzata delle sue pratiche, possa permeare anche quello di una comunità professionale. Perché le professioni, e finanche le scienze, camminano sulle gambe degli uomini e i muscoli di quelle gambe talvolta perdono tono e la loro faticosa mobilità ostacola il compito di cimentarsi con le sfide della propria epoca, di rimettersi in cammino. Un cammino innanzitutto conoscitivo, aperto all'esplorazione in nuovi ambiti clinici, capace di far entrare dall'esterno una ventata di futuro anche nella forma di una interrogazione, e perché no, anche di una contestazione al proprio operato. Una interrogazione anche ruvida concessa a coloro i quali quella disciplina è rivolta e alle stesse nuove generazioni professionali, anch'esse come quelle descritte da Valerii, perdute e irretite nella mancanza di un conflitto in grado di mobilitare cambiamenti, di riscrivere le agende delle priorità.

La civetta di Minerva, di una famosa pagina Hegel citata dall'autore, spicca il suo volo solo solo al volgere della giornata, alle luci del crepuscolo. La Psicoterapia, come forse la Filosofia, sono destinate ad arrivare sempre troppo tardi, sempre superate dai fenomeni che dovrebbero comprendere e governare? Nella lettura di Bodei proposta da Valerii, la civetta è l'animale che ha grandi occhi ed è capace di vedere nella notte. La civetta può dunque simboleggiare "lo sforzo incessante di comprendere le forze che trasformano il mondo e prefigurano il futuro", uno sforzo cruciale proprio nei momenti bui.

Sta dunque anche davanti alla comunità scientifica della psicoterapia il compito di diventare contemporanea a se stessa: riattraversare il suo percorso, guardare in faccia le sue devastazioni, le sue impasse.

In una delle fulminanti citazioni che punteggiano il testo di Valerii il filosofo tedesco Ernst Bloch afferma "è compito di questa filosofia penetrare sfere sempre più estese e profonde dell'esistenza". E poi: "pensare significa oltrepassare", tratta dal suo capolavoro "Il Principio Speranza", frase scolpita nella pietra sotto la quale è sepolto il suo autore nel cimitero di Tubinga.

Bisogna pensare in Psicoanalisi per oltrepassare il profondo e giungere all'esteso. La mia tesi è che nel salto d'epoca che viviamo per andare veramente a fondo clinicamente, professionalmente, formativamente dobbiamo saper estendere.

Estendere il campo della nostra ricerca, estendere lo sguardo ad altri ambiti disciplinari, saper ampliare quando è necessario i campi terapeutici, allargare la partecipazione alla nostra vita scientifica ai giovani colleghi molte volte impegnati in maniera solitaria e tenace su nuovi fronti clinici e conoscitivi.

In omaggio ad una visione situata, contestuale e critica dell'uomo che ispira la pratica analitica, dobbiamo poter guardare al mondo interno consapevoli di quanti fili di "esterno" in esso sono tessuti insieme: storie di popoli, di culture con i loro simboli, rituali, immaginari, mutazioni socio-antropologiche di comunità, processi di costruzione delle identità individuali e collettive, forme dei legami sociali e familiari, vincoli del diritto, contingenze economiche, forme possibili di welfare, di assistenza, di cittadinanza.

Alla seduzione di una lettura sempre psicoanalitica del sociale dobbiamo poter opporre la disponibilità all'ascolto e al dialogo di e con altre letture, con le loro specifiche e peculiari chiavi interpretative e modi del conoscere: generare con esse un incontro dialettico, uno scontro se occorre, una tensione critica.

Dunque, abbiamo bisogno di una lettura anche sociale dello psichico non come viaggio interdisciplinare un po' esotico ed estemporaneo caso mai per pochi eletti o avventurieri. Ne abbiamo bisogno strutturalmente, in maniera continua, come impalcatura irrinunciabile della nostra costruzione di competenze scientifiche e professionali.

Il libro di Valerii suggerisce, quanto meno a me, che la via per il profondo passa per l'esteso. Sa sapessimo realmente intraprendere questo viaggio, potremmo forse dire alla sua conclusione, con Thomas Eliot, che possiamo finalmente tornare al punto di partenza, al "profondo" così caro alla nostra disciplina, per conoscerlo per la prima volta.

Riferimenti Bibliografici
  • Morin, E. "La testa ben fatta. Riforma dell'insegnamento e riforma del pensiero", Raffaello Cortina Editore, 2000
  • Valerii, M. "La notte di un'epoca. Contro la società del rancore: i dati per capirla e le idee per curarla, Ponte delle Grazie, 2019
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